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VIVERE NELLA VERITÀ DI CHI SIAMO

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Lc 3, 1-6

Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconítide, Lisània tetraca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com'è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia: "Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore,raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sia riempito,ogni monte e ogni colle sia abbassato; i passi tortuosi siano diritti; i luoghi impervi spianati.Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!

 

Di una maniera solenne, secondo lo stile degli storici dell'epoca, Luca apre il racconto dell'attività pubblica di Gesú con la presenza di Giovanni Battista come "precursore", colui che -citando le parole di Isaia- "prepara la via".

Preparare la via, raddrizzare i sentieri, riempire i burroni, abbassare i colli, rendere diritti i passi tortuosi, spianare i luoghi impervi... Tutte queste immagini poetiche potrebbero forse essere condensate in una sola espressione: Siate veraci.

Tutti questi luoghi impervi e tortuosi sono opera dell'ego, con i suoi attaccamenti e le sue paure. Attraverso questi, cerca di affermarsi o di proteggersi, tuttavia non riesce a fare altro che prolungare e acutizzare la sofferenza.

"Lo spirito raddrizza ciò che l'ego storce e scompiglia", ha scritto Halil Bárcena. Poiché, come l'ego tende a muoversi nel buio e nell'inganno, cosí lo spirito non conosce altra legge che la verità. E questo riconoscimento della verità -è questo l'umiltà- si trasforma in luce, riposo e libertà.

Matthieu Ricard, il noto biologo e monaco buddista, in un libro estremamente interessante (En defensa de la felicidad, Urano, Barcelona 2005), ci ricorda che, come aveva scritto Nicolas Chamfort, "il piacere può poggiare sull'illusione, ma la felicità riposa sulla verità." Nella stessa direzione si esprimeva Stendhal: "Credo che ogni sventura provenga dall'errore e invece ogni ventura ci sia procurata dalla verità."

Unicamente la verità raddrizza la via; solo partendo dalla verità è possibile la crescita della persona; soltanto in essa possiamo fare dei passi nell'unificazione e nel riconoscimento della nostra vera identità.

Quando parliamo di "essere veraci" o di "vivere nella verità", ci stiamo muovendo a due livelli, non escludenti né scontrati, anche se ciascuno di essi con un significato peculiare.

Al primo livello, significa, semplicemente e chiaramente, riconoscere la nostra verità completa, senza negare, occultare o truccare quegli aspetti della nostra persona, atteggiamenti o comportamenti, che non ci piacciono. Siamo veritieri quando accettiamo le nostre luci e le nostre ombre, senza alterare né le une né le altre. L'accettazione umile di tutto quello che vediamo in noi costituisce la porta che ci rende possibile l'addentrarci progressivamente in spazi di maggiore verità.

Nel far cosí, percepiamo che non siamo chiamati ad essere "perfetti", ma "completi". La perfezione, come la intende il nostro ego, non è alla portata degli umani. E non solo questo: i messaggi perfezionistici, che di solito sono impressi nel nostro inconscio fin dalla prima età, ci fanno diventare persone rigide, esigenti e orgogliose, cosí come sono state rappresentate -negli scritti evangelici- nell'archetipo del "fariseo", che si vanta di essere rigoroso, osservante e perfetto -come il fratello maggiore della parabola del "figlio prodigo"-, ma interiormente è indurito, e rivolge il suo risentimento in forma di rimprovero verso il padre e di disprezzo verso gli altri.

"L'ideale di perfezione" è associato a sensi -piú o meno occulti- di colpa. In realtà, si tratta delle due facce della stessa medaglia: anche quando la persona non lo avverte, perfezionismo e sensi di colpa camminano per mano. Cosí si spiega che il perfezionismo -mai privo di orgoglio nevrotico- ci impedisca di riconoscere i nostri falli, errori e difetti, e faccia sí che raddoppiamo gli sforzi per sostenere -pur a costo di una tensione esagerata- l'immagine idealizzata che il proprio perfezionismo esige di noi.

Forse dovremmo cominciare con l'abbandonare il perfezionismo, rifiutandoci di essere "perfetti". Poiché, finché non lo faremo, ci risulterà impossibile camminare nella verità.

Come dicevo sopra, non siamo chiamati a essere perfetti, ma "completi". "Completezza" -"qualità di completo", secondo il Dizionario della Reale Accademia della Lingua spagnola- è sinonimo di unificazione, ed evoca l'immagine dell'abbraccio e della totalità. E la verità soltanto può essere tale quando non lascia fuori niente, non nega, né occulta, né seleziona, ma si apre ad accogliere assolutamente tutto quello che vi appare.

La persona verace non pretende di sé stessa il fare tutto bene; sa di essere imperfetta, fallibile, condizionata e limitata. Ha presenti i propri falli ed è in grado di riconoscerli e di viversi riconciliata in mezzo a questi.

Ma "vivere nella verità" include un secondo livello piú profondo, che ha a che fare con il riconoscimento e l'esperienza della nostra vera identità. Non si nega nessun "luogo impervio" dell'ego, ma cessa l'dentificazione con esso. Rimane l'inerzia dei funzionamenti egoici, ma è possibile adottare delle distanze che ci liberano dal chiuderci o arroccarci nelle esigenze dell'ego.

La persona verace, dunque, riconosce tutta la sua verità, con tutti i suoi chiaroscuri, senza rinnegare dei limiti della sua condizione umana. Ma, allo stesso tempo, percepisce sé stessa come qualcosa che è infinitamente piú di quella "personalità" psicologica in cui adesso si mostra.

Se smettiamo di essere veraci al primo livello, ci frantumiamo nevroticamente, negando una parte di noi. Se smettiamo di esserlo al secondo livello, ci riduciamo all'ego, sommergendoci nell'ignoranza e nella sofferenza.

Essere veraci -vivere nella verità di ciò che accade e nella Verità di ciò che siamo- è l'unico modo di "preparare la via al Signore". Ed è allora -come dice il testo, che "ogni uomo vedrà la salvezza di Dio".

"Salvezza" è sinonimo di pienezza: abbracciando tutti gli elementi che ci costituiscono, riconosciamo la nostra identità ultima come Pienezza condivisa e non-duale. Poiché la pienezza non è "qualcosa" che dobbiamo raggiungere o che ci arriverà da "fuori" e nel "futuro". Pienezza è ciò che già siamo ... e che siamo sempre stati.

 

Enrique Martínez Lozano

www.enriquemartinezlozano.com

Traduzione: Teresa Albasini

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