DOVE TROVIAMO LA GIOIA?
Enrique Martínez LozanoLc 1, 39-45
In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: "Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore."
La pietà mariana è spesso caduta nel sentimentalismo e perfino nella sdolcinatezza, provocando piú rifiuto che ammirazione. Questo si è appoggiato a letture letterali degli scarsi testi che ci sono arrivati intorno alla figura di Maria.
Tuttavia, quando andiamo oltre la lettura letterale, il testo ci appare come un gioiello di sapienza permanente, che ci mostra sia l'accaduto allora sia quello che continua ad accadere oggi. Poiché le parole sono debitrici "dell'idioma" (anche culturale) in cui sorgono; la sapienza, invece, è sempre atemporale.
Al di là dell'aneddoto, il testo noto come "la visitazione" parla di una donna "gravida" di Dio, di ciò che significa vivere cosí e degli effetti che questo produce.
Una persona che si sa "gravida" di Dio è sempre felice ("beata colei ..."), con quella felicità di fondo che può convivere con problemi, difficoltà, fallimenti e un'infinità di interrogativi.
E questo perché la felicità di cui si tratta non è "qualcosa", un oggetto che possiamo acchiappare e appropriarcelo a beneficio dell'ego. Difatti quando poniamo la felicità in oggetti necessariamente finiremo per essere frustrati e delusi, perché non esiste alcun "oggetto" capace di saziare la nostra sete.
La felicità, lungi dall'essere "qualcosa" di aggiunto, è un altro nome della nostra identità. È sempre alla nostra portata, perché lo siamo sempre. La nostra sfortuna e la fonte di ogni nostra sofferenza consiste nel fatto che lo ignoriamo e che ci viviamo distanti da essa.
Dire che la felicità costituisce la nostra identità piú profonda significa riconoscere che la troviamo dentro di noi. Non dipende da fattori esterni, e non è in balia dei viavai superficiali.
È indubbio che noi tutti possiamo avere cosí tanti condizionamenti (soprattutto quelli piú incoscienti) che ci risulti davvero difficile connettere con la nostra verità profonda e mantenerci ancorati ad essa. Le ferite risvegliate tendono a ridurci ad esse stesse, facendo sí che disconnettiamo da chi siamo e che vediamo le cose a partire dal dolore o dalla carenza. Le carenze si manifestano come ansietà. Le paure possono attanagliare lo stomaco e annebbiare la visione. Ma ciò non significa che abbiamo smesso di essere felicità, ma semplicemente che non siamo ancora capaci di rimanere in essa.
Maria è felice -dice il racconto- perché è "gravida" di Dio. Si tratta di un'immagine straordinariamente bella, e che vale per tutti noi. Siamo esseri "gravidi" di Dio: il nostro nucleo piú intimo e costituente è il Mistero ultimo del Reale, quello che le religioni hanno chiamato "Dio". E se siamo questo, come non sentirci pieni? E se siamo pieni, che cosa ci manca per essere felici? "Povero essere umano, che, desiderando sempre avere tutto, non si rende conto che non gli è mai mancato nulla."
Come scoprire ciò che siamo? Il testo dice che in Maria fu possibile perché credette: "beata colei che ha creduto". Credere non significa, prima di tutto, alcun tipo di assenso mentale -la fede si sarebbe cosí ridotta a una credenza, vale a dire a un oggetto-, ma rimanda a un atteggiamento di fiducia essenziale e a una capacità di visione.
In qualsiasi circostanza ci troviamo, possiamo provare a far tacere la mente, con tutti i suoi messaggi inquieti o sventati, e aprirci al Silenzio che vi appare. È probabile che possiamo affermarci su una Fiducia cosí gratuita come evidente, e che sperimentiamo che siamo permanentemente sostenuti da Ciò che, benché innominabile, costituisce, allo stesso tempo, la nostra identità piú profonda. Quando tutto questo è presente, la fiducia ci avrà condotti alla visione. Ed emergerà la gioia di fondo.
Infine il testo mette in risalto "l'effetto" che produce la presenza di una persona "gravida" di Dio: perfino il feto esulta di gioia nell'utero di Elisabetta.
La persona che vive connessa alla sua vera identità non solo riposa su una Gioia di fondo dalla quale sa di essere sostenuta e costituita, ma fa anche risvegliare e produce, a sua volta, Gioia intorno a sé. Forse non sappiamo spiegare a che cosa sia dovuto, ma in presenza di persone che si vivono cosí qualcosa "esulta di gioia" dentro di noi, fino a farci esclamare in Benedizione: "benedetta tu!"
Enrique Martínez Lozano
Traduzione: Teresa Albasini