SIAMO IN CASA?
Enrique Martínez LozanoLc 15, 1-32
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro". Allora egli disse loro questa parabola:
"Un uomo aveva due figli. Il piú giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio piú giovane, raccolte le sue cose, partí per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in sé stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono piú degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partí e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono piú degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito piú bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udí la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscí a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato."
Una parabola è suscettibile di differenti livelli di lettura, tutti quanti legittimi, e non solo non autoescludenti ma anzi mutuamente complementari. È quello che succede con questa parabola conosciuta come "del figlio prodigo".
Ad un livello letterale-storico, la parabola costituisce una difesa che Gesú fa del suo comportamento e della sua missione, di fronte ai farisei e ai teologi ufficiali del giudaismo. In piena polemica con loro, Gesú sostiene la gratuità dell'amore di Dio, davanti al quale essi stessi -rappresentati nel figlio maggiore- si sono corazzati, mentre ostentano di essere quelli che hanno sempre "obbedito alle norme" e non se ne sono mai allontanati.
Ad un livello teologico-teista, il racconto appare come una catechesi su Dio, la cui rivelazione costituisce lo scopo della parabola. Gesú afferma che Dio è Amore compassionevole e Grazia incondizionata. Sia il figlio minore, che ha creduto di allontanarsi da lui, sia quello maggiore, che è rimasto in casa, ma con un cuore risentito e indurito, ricevono la stessa accogliente offerta: la festa dell'incontro. Al primo, che aveva voluto trovare la felicità nella fuga, viene donato tutto ciò che lo riabilita e lo afferma nella sua dignità e nel suo valore; al secondo, che vive nel rimprovero e l'amarezza, viene manifestato qualcosa di incredibile, che sembra non avesse mai notato: "tutto ciò che è mio è tuo".
Ad un livello psicologico-simbolico, i due figli rappresentano due dimensioni di ogni persona: l'ansia che porta a cercare la felicità lontano e fuori di "casa", e l'immagine che fa vivere nell'apparenza e nell'obbedienza per evitare ogni eventuale "castigo" del superego. Soltanto nella misura in cui riconosciamo in noi stessi questi movimenti, e siamo capaci di accettarli umilmente, a partire dalla verità di chi siamo, saremo capaci di avanzare verso un'integrazione psicologica salutare.
Ad un livello spirituale-transpersonale, infine, le tre figure della parabola rispecchiano sia i movimenti piú superficiali dell'ego, sia l'identità piú profonda che ci costituisce.
Il "figlio minore" è l'ego ignorante e carente: non ha trovato la propria casa né si riconosce in chi è. "Ha bisogno" di fuggire -inseguendo il richiamo della felicità che crede situata lontano e nel futuro-, per poter imparare. La crisi che sperimenta -senza lavoro, senza niente da mangiare, senza relazioni, nella situazione piú servile che si possa immaginare (per un ebreo, pascolare i porci era la cosa piú impura che si potesse pensare)- gli aprirà gli occhi e farà sí che intraprenda la via dell'autoconoscenza e del ritorno a "casa".
Il "figlio maggiore" è l'ego, anch'esso ignorante, trincerato dietro un'immagine perfezionistica ed esigente, grazie alla quale sperava di ottenere un riconoscimento ("un capretto") su cui poter affermarsi. Benché apparentemente non se ne sia mai andato e abbia sempre "obbedito", da "buon figlio", tuttavia non conosce affatto la sua identità né la sua "casa".
La sua autoesigenza ha finito per avvelenare la sua vita nel risentimento, che si esprimerà nel giudizio contro suo fratello e nel rimprovero contro il padre. È un ego piú "pericoloso": infatti, mentre il minore si lascia abbracciare, di questo non sappiamo nemmeno se abbia partecipato alla festa. L'immagine di chi non riconosce e quindi non accetta la propria ombra contamina di amarezza sia la propria vita che le relazioni e la convivenza.
Il "padre" è la nostra vera identità; pertanto, la nostra "casa" e il nostro buon luogo. Quando ci troviamo lontano da chi siamo, viviamo nell'incoscienza e nella sofferenza di chi "fugge" o di chi "obbedisce"; in entrambi i casi, di chi ignora chi è realmente.
Il "padre" è l'Io Sono universale, l'identità condivisa, al di là delle forme egoiche che appaiono in superficie. Questa identità è Amore, Grazia, Compassione e Festa. Non c'è nient'altro che dobbiamo fare in questa vita, se non risvegliarci a questa: tutte le altre cose ne saranno conseguenza, "ci saranno date in piú", diceva lo stesso Gesú.
Finché non ci riconosceremo nella nostra vera identità, rimanendo nella credenza di essere un io separato, non riusciremo a sfuggire a un terribile paradosso: desideriamo possedere cose perché crediamo di essere estranei ad esse, mentre in realtà siamo tutto ("tutto ciò che è mio è tuo").
I nostri attaccamenti e le nostre paure sono causati solamente da questa percezione erronea e autolimitante di chi siamo. Chiusi nell'idea dell'io, abbiamo dimenticato la nostra vera identità, illimitata e originale. Non è strano che, sia le tradizioni sapienziali sia le tradizioni spirituali, abbiano insistito sulla priorità di conoscere sé stessi -"conosci te stesso", conosci la tua vera identità (che non è l'io)- come unico mezzo per uscire dall'inganno e dalla sofferenza.
Enrique Martínez Lozano
Traduzione: Teresa Albasini