ATTENTI AL MERITO!
Enrique Martínez LozanoLc 18, 9-14
Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: "Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava cosí tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato."
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Il vangelo smaschera due atteggiamenti che, pur essendo profondamente egoistici, possono passare inosservati: l'indifferenza e la religiosità basata sul merito.
In realtà, non poteva essere di modo diverso, tenendo conto che il messaggio di Gesú si fonda precisamente sulla Compassione e sulla Grazia. Ed è proprio cosí che mostra Dio: come Compassione gratuita e Grazia compassionevole.
Di fronte alle cosiddette "parabole della misericordia" (Lc 15), ce ne sono altre tre in cui si denuncia con forza insolita l'indifferenza del ricco che non vede (Lc 16, 19-31), delle persone religiose (sacerdote e levita) che "passano oltre" (Lc 10, 25-37) e di coloro che sono incapaci di riconoscere Gesú in ogni persona che soffre (Mt 25, 31-46).
E di fronte ad un messaggio di grazia che spiazza i nostri schemi e le nostre gerarchie, i nostri ideali di perfezione ed esigenza, la nostra idea delle ricompense e retribuzioni, si denuncia la religiosità -tipica dei farisei, ma presente in tutte le religioni- basata sul merito e la ricompensa.
Una parabola che smonta questo tipo di religiosità in cui, paradossalmente, siamo stati formati per anni, è quella nota come "parabola degli operai mandati nella vigna" (Mt 20, 1-16). I lavoratori "dell'ultima ora" ricevono esattamente lo stesso che i primi, che "hanno sopportato il peso della giornata e il caldo". E non solo: quando questi vanno a lamentarsi dal padrone, ricevono una risposta sconcertante per i nostri schemi: "Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?"
Sia l'indifferenza che il merito sono segni distintivi dell'ego nel suo modo di situarsi nella vita e nella religione. L'ego è incapace di compassione e di empatia: vive chiuso nel proprio guscio di bisogni e paure, cercando di avere un'esistenza piacevole per sé, al di fuori di ogni altro criterio.
Cosí, è anche incapace di gratuità: ha bisogno di appropriarsi di tutto quello che fa e, nella sua vita calcolata, deve ottenere reddito da ogni sua azione. Se spostiamo questo all'ambito della religione, si capisce facilmente che la viva come mezzo per ottenere risposta ad ogni suo bisogno: sentirsi sicuro, meritevole, salvato, al di sopra degli altri... E che si aspetti che Dio "ricompensi" adeguatamente tutti i suoi sforzi.
Questo è esattamente ciò che vediamo nella figura del fratello maggiore della parabola del "figlio prodigo" ("io ti servo da tanti anni, e tu non mi hai dato mai un capretto") e in quella dei lavoratori "della prima ora", che pretendono una ricompensa maggiore di quella data a quelli che erano arrivati al termine della giornata.
L'ego pretende il "capretto" e il "denaro". Ma, non appena vede che l'altro, che presumibilmente non ha avuto un comportamento simile al suo, riceve la stessa ricompensa, si ribella ed esige di piú.
La denuncia della religiosità basata sull'idea del merito appare anche perfettamente rappresentata nella parabola che leggiamo oggi. Infatti Gesú la racconta "per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri".
Si tratta di una religiosità "autosoddisfatta", che colloca la persona su un piedistallo di orgoglio e compiacenza, dal quale si permette di giudicare tutti gli altri. Tuttavia, la sua stessa preghiera lo tradisce, in quanto lo si vede condannare ciò che, nel suo inconscio, desidererebbe di fare.
Con tutto, l'aspetto piú grave di questo tipo di religiosità non è solo che genera un atteggiamento di confronto e perfino di disprezzo verso il diverso, ma il fatto che la stessa persona vive "non riconciliata" con sé stessa.
Quello che condanniamo negli altri, perché ci irrita, risiede in noi occulto e represso. Perciò, quando giudichiamo e squalifichiamo gli altri, senza rendercene conto stiamo mostrando noi stessi. E finché non lo riconosceremo come proprio, vivremo fratturati, rifiutando elementi che fanno parte della nostra persona. Questa stessa frattura interna è quella che provoca un risentimento piú o meno larvato verso gli altri.
Detto in positivo: nel riconoscere e accettare la nostra propria ombra -tutto ciò che a un certo momento abbiamo dovuto negare, occultare, dissociare, reprimere...-, cresciamo in unificazione e armonia. Scompaiono i giudizi e le squalificazioni, ed entriamo in un cammino di umiltà e di grazia.
L'accettazione dell'ombra ci fa scendere dal falso piedistallo cui ci aveva fatto salire l'ego nevrotico e ci permette di crescere in umiltà e, in definitiva, in umanità.
Enrique Martínez Lozano
Traduzione: Teresa Albasini