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RIMANERE SENZA DISTANZA NÉ SEPARAZIONE

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Gv 15,1-8

"Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti piú frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso se non rimane nella vite, cosí anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli."

Nel breve testo precedente, compare sette volte uno dei verbi preferiti dall'autore del quarto evangelo: menein, che può essere tradotto come "dimorare" o come "rimanere". Comporta l'idea di uno stare-in, di modo continuo e stabile, a tal punto che con chi si rimane si diventa "uno".

Gesú è cosciente di rimanere nel Padre e nei discepoli, e desidera che anche i discepoli diventino coscienti di questo. Tutto rimane ormai, e da sempre, nell'Unità, poiché nulla può esistere separato da nulla. Occorre solo che acquistiamo questa coscienza, uscendo dall'inganno cui ci induce la mente, per poter riconoscere questo fatto e viverlo.

La mente può operare soltanto separando le cose; è questa la condizione del pensiero, perché pensare è delimitare, stabilire dei confini fra gli oggetti pensati. Questo modo di fare è efficace nell'ambito degli oggetti, e ha fatto possibile il progresso in molti campi.

La trappola e l'inganno appaiono quando, dimenticando che si tratta soltanto di una caratteristica della mente, quello che è un "modo di vedere" si assolutizza, e si finisce per credere che la realtà sia quella che la mente descrive. Ecco che si è prodotto uno scivolamento insostenibile dal piano del "pensare" (separatore e dualista) al piano dell'"essere" (unito o non-duale).

Sia la parola di Gesú sia l'allegoria della vite mirano nella direzione giusta: non siamo degli isolotti separati; sempre siamo-in e siamo-con.

Il dimenticare questa realtà fa sí che ci riduciamo all'ego (l'identità che ci fornisce la nostra mente) e che viviamo secondo questa credenza.

Egocentrismo, individualismo, solitudine, paura, ansia, scontro... sono le prime conseguenze di questo inganno.

Noi non siamo però questo ego isolato, che esiste solo nella nostra mente. Al limite, siamo la Vita che si esprime temporaneamente in questa forma che oggi percepiamo. O, se vogliamo usare l'allegoria del vangelo, siamo la stessa vite sotto forma di tralci.

"Vite" e "tralci" non sono due entità indipendenti. Di fatto, non può esistere l'una senza l'altra. Sono semplicemente "forme" differenti dell'unica Realtà, ma in una differenza che non significa affatto separazione: si tratta della stessa Realtà che si esprime in un altro modo.

Vite e tralci, acqua e onde, vuoto e forma, Divinità e materia, Dio e cosmo, Ciò che non è manifestato e Ciò che è manifesto..; qualsiasi sia il nome che la nostra mente le attribuisca stiamo parlando della stessa ed unica Realtà, nelle sue "due facce", abbracciate in una ammirabile non-dualità.

Per questo, quando vediamo la "forma" -in qualunque modo si presenti-, stiamo vedendo il "Vuoto" che essa esprime; quando vediamo il cosmo, la natura, l'umanità, stiamo vedendo Dio che si esprime o si dispiega dinanzi ai nostri occhi.

Non c'è posto per il dualismo -che esiste unicamente nel nostro pensiero-, ma non si tratta neppure di un panteismo indifferenziato o volgare. Certi autori -sempre di piú all'interno della teologia cattolica, ma non solo i teologi- parlano di paninteismo (tutto-in-Dio), un'espressione che mi sembra appropriata purché, nonostante la novità del termine, non vi penetri di nuovo il dualismo. Infatti, a mio avviso, è sempre preferibile l'espressione non-dualità.

Com'è ovvio, la non-dualità non può essere pensata, dato che la struttura del pensiero è duale. Non appena il pensiero si fa presente, la realtà appare separata: si manifesta l'apparente dualità.

Lo stato non-duale non può nemmeno raggiungersi attraverso uno sforzo mentale: la mente non può portarci piú in là della propria mente.

Il compito è quello di esercitarci nel far tacere la mente e vivere il piú possibile nel momento presente, e questo darà alla nostra vita un'altra "qualità", e chissà che a un certo punto non appaia davanti a noi la Realtà cosí com'è, oltre il velo che la mente interpone.

La pratica del far tacere la mente -la pratica meditativa, formale o informale che sia- equivale a percorrere quel velo, per permettere al Presente di apparire ai nostri occhi.

Possiamo comunque vivere piú coscienti dell'Unità che siamo con tutto, nella certezza che tutto ciò che è manifesto -noi compresi- non è altro che il dispiegarsi di quello che non vediamo, il Mistero che prende forma in ogni piccolo oggetto, senza essere separato da esso.

Questa percezione ed esperienza ci farà crescere in saggezza e, con essa, in capacità di comprendere e di vivere in un modo nuovo.

Diventeremo piú coscienti del fatto che tutto, nel mondo delle forme, è regolato dalla legge della polarità. In questo modo, né rifiuteremo niente né ci identificheremo con niente.

Come scriveva Ajahn Chah, un monaco tailandese deceduto nel 1992, "la pace che uno deve trovare dentro sé stesso si trova nello stesso luogo in cui sono presenti l'agitazione e la sofferenza. Non si trova nel bosco e nemmeno sulla cima della collina, e non viene conferita da un maestro. Laddove Lei proverà sofferenza potrà anche trovare l'emancipazione dalla sofferenza. In realtà, tentare di sfuggire alla sofferenza è, di fatto, correre verso di essa."

Non sfuggire, non identificarsi: è il cammino della saggezza che ci permette di riconoscerci nella nostra identità piú profonda, dietro (o sotto) l'io apparente, che è solo un "oggetto" all'interno di chi veramente siamo.

Torniamo all'allegoria giovannea. Rimanere in Gesú e nel Padre equivale a sperimentarci in quell'identità profonda, che è non-duale e quindi condivisa. Non c'è intimità piú grande: piuttosto che nelle "mappe" che sono le credenze e le religioni -mappe preziose in molti casi-, ci riconosciamo nel "Territorio" comune. Piuttosto che pensarci come "tralci" separati, ci scopriamo come "vite" unificata.

Per concludere, vorrei offrirvi una poesia di Bitoriano Gandiaga, francescano basco, deceduto nel 2011.

 

Andai in cerca della pace

Spesso andai lontano

in cerca della pace,

andai in cerca della pace,

con l'eterna speranza

che la pace che in me non avevo

l'avrei trovata laggiú, lontano.

Andai lontano in cerca della pace,

ma senza una speranza fondata;

la pace che in me non avevo

anche laggiú era lontana,

nella sua lontananza inaccessibile.

Rimasi laggiú

(mai piú me ne sarei andato lontano),

guardando dentro di me,

e mi misi a lavorare,

a mettere ciascuna al suo posto

le mie agitate passioni.

E mentre facevo ordine dentro di me

cominciò ad illuminarmisi

l'interno, e l'esterno.

Da allora mai piú me ne andrò lontano:

la pace non è lontana,

la sua fonte è dentro di noi.

Traducción de Teresa Albasini Legaz

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