COSA DOBBIAMO FARE?
José Antonio PagolaMalgrado l'informazione che ci offrono i mezzi di comunicazione, non è facile renderci conto che viviamo in una sorta di «isola dell'abbondanza», in un mondo dove più di un terzo dell'umanità vive nella miseria. Purtroppo basta volare qualche ora in qualunque direzione per trovare fame e distruzione.
Questa situazione ha soltanto un nome: ingiustizia. Ammette solo una spiegazione: l'incoscienza. Come sentirci umani se a pochi chilometri da noi –che sono sei mila chilometri?– ci sono esseri umani che non hanno né casa né terra per vivere, uomini e donne che passano la giornata a cercare qualcosa da mangiare; bambini che non supereranno più la denutrizione?
La nostra prima reazione è quasi sempre la stessa: «Che possiamo fare davanti a tanta miseria». Mentre ci facciamo queste domande ci sentiamo più o meno tranquilli e appaiono le giustificazioni di sempre: non è facile stabilire un ordine internazionale più giusto; bisogna rispettare l'autonomia di ogni paese è difficile assicurare modi efficaci per distribuire gli alimenti; più ancora, mobilitare un paese per farlo uscire dalla miseria.
Tutto questo crolla quando ascoltiamo una risposta diretta, chiara e pratica, come quella che ricevono dal Battista quelli che chiedono cosa fare per «preparare la via del Signore». Il profeta del deserto risponde loro con una semplicità geniale: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto».
Qui finiscono tutte le nostre teorie e tutte le nostre giustificazioni. Che cosa possiamo fare? Semplicemente non accumulare più del necessario per vivere e non aumentare il nostro benessere dimenticando quelli che muoiono di fame. L'autentico progresso non è che una minoranza abbia un benessere materiale sempre più elevato dimenticando quelli che muoiono di fame, ma che l'intera umanità possa vivere più dignitosamente e senza sofferenze.
A Natale di due anni fa ero a Butare (Ruanda). Avevo un corso di Cristologia con un gruppo di missionarie spagnole. Un mattino una religiosa di Navarra raccontò che un mattino, mentre usciva da casa sua, aveva trovato un bambino mezzo morto di fame. Avevano potuto comprovare che non soffriva di nessuna malattia grave, soltanto denutrizione. Era uno in più fra tanti orfani ruandesi che lottano ogni giorno per sopravvivere. Ricordo di aver pensato solo una cosa, che non dimenticherò mai: noi cristiani d'Occidente possiamo accogliere con cantici il Bambino di Betlemme mentre chiudiamo il cuore a quei bambini del Terzo Mondo?
José Antonio Pagola
Traduzione: Mercedes Cerezo
Publicado en www.gruposdejesus.com