PERDERE O SALVARE LA VITA
Enrique Martínez LozanoMc 8, 27-35
Poi Gesú partí con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: "Chi dice la gente che io sia?" Ed essi gli risposero: "Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti". Ma egli replicò: "E voi chi dite che io sia?" Pietro gli rispose: "Tu sei il Cristo". E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno.
E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Gesú faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: "Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini."
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: "Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà."
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Se consideriamo il vangelo di Marco come un dittico, questo testo farebbe da "cerniera" che segnerebbe la divisione tra le due parti. Qui si pone già apertamente la questione dell'identità di Gesú, il cosiddetto "primo annunzio della passione", l'incomprensione di Pietro (dei discepoli) di fronte al cammino del loro maestro e la paradossale e saggia sentenza conclusiva di Gesú.
"Chi dice la gente che io sia?" Di Gesú si dicevano molte cose: che era "fuori di sé" (Mc 3,21), che era "posseduto da Beelzebúl" (Mc 3,22), che era "un mangione e un beone" (Lc 7,34), "amico dei peccatori" (Mt 11,19), "bestemmiava" (Mc 2,7) ed era "un impostore" (Mt 27,62) che insegnava dottrine che avrebbero potuto provocare una rivolta popolare (Lc 23,1).
In questa occasione, Marco ci trasmette l'idea che, per la gente, Gesú era un altro profeta, sulla scia dei grandi profeti d'Israele. Questo è un titolo laudativo in sommo grado. Ma per il suo gruppo, che si esprime per bocca di Pietro, è ancora di piú: il Messia (Cristo o Unto), per mezzo del quale Yhwh avrebbe restaurato la sorte del popolo di un modo definitivo. Tuttavia, ciò che Pietro intende sotto questa denominazione non ha niente a che vedere con il cammino che Gesú adotta.
Lungo tutto il suo scritto, Marco manifesta una prevenzione speciale di fronte a qualunque idea di un messianismo trionfalistico o "vittorioso". Il cammino del Messia -ripeterà piú volte- conduce all'offerta di sé e alla croce. Tuttavia i discepoli appaiono ostinati, "sordi e ciechi", e discutono abitualmente di questioni di potere, importanza e privilegio, mentre Gesú parla loro invece di servizio.
Prendendo come spunto i tre "annunzi della passione", Marco mostrerà entrambi i cammini -quello di Gesú e quello dei discepoli- come diametralmente opposti.
Quello di Gesú -il quale piú avanti affermerà che "non è venuto per essere servito, ma per servire" (Mc 10,45)- è il cammino della sapienza e della compassione, proprio di chi "ha visto" e percepisce sé stesso come un "canale" attraverso il quale fluisce la vita a favore degli altri.
Quello dei discepoli rispecchia invece i meccanismi propri dell'ego, che non cerca altro che l'autoaffermazione a qualsiasi costo, afferrandosi all'avere, al potere e all'apparire, sfuggendo contemporaneamente a tutto quello che possa sembrare disappropriazione e offerta.
La divergenza tra i due cammini è esplicitata sia nella reazione di Pietro che nella risposta di Gesú. Per l'ego, l'offerta disinteressata è una follia, che bisogna evitare ad ogni costo. Per Gesú, al contrario, la lettura dell'ego si oppone direttamente a Dio.
Nel nostro "idioma culturale" si potrebbe tradurre in questo modo: il Fondo di ciò che è reale è Amore, offerta, servizio... Tutto quello che comporti separatezza e incapsulamento nei confini dell'ego va contro il dinamismo proprio di ciò che è.
Non si tratta quindi di alcun tipo di volontarismo, o dell'esigenza arbitraria di un Dio che pretenderebbe sacrificio. È una questione di sapienza o di comprensione. Ed è questo ciò che esprimono le parole di Gesú con le quali si chiude il racconto: "Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà."
A non pochi orecchi, la parola "religione" suona come "negazione", "croce", "morte"... Cosí suonava a Nietzsche, scatenando in lui una denuncia energica di ciò che lui riteneva "negazione della vita".
Di fronte a un tale equivoco, bisogna cominciare col riconoscere che questo non ha nessun fondamento nel vangelo, ma in fattori ad esso estranei, di provenienze diverse, che riuscirono a configurare un immaginario collettivo dalle tinte dolenti e angoscianti. Temi quali il peccato, la colpevolezza, il castigo, le "pene eterne" colorarono catechismi, prediche e devozioni, fino a limiti inimmaginabili.
Nulla di tutto ciò appare né in Gesú né nel vangelo. La sua è una parola vitale e sapiente. Non è certamente una parola che soddisfi l'ego, alimentando l'ignoranza e l'incoscienza in cui questo si muove, ma non è neanche un messaggio che reprima la vita e la libertà della persona.
Ciò che è in gioco è, per l'appunto, "salvare la vita", ovvero vivere in pienezza. Tuttavia, questo è possibile soltanto quando scopriamo la nostra vera identità e ci liberiamo dalle trappole dell'ego che ci confondono e ci mantengono nella sofferenza.
Noi esseri umani siamo una realtà paradossale, dal momento che sperimentiamo in noi una sorta di "doppia identità": da un lato, l'identità individuale (l'io), dall'altro l'Identità profonda (transpersonale) che ci costituisce di fondo.
Succede però che il paradosso si trasforma in prigione e confusione ogni volta che assolutizziamo la prima identità e scordiamo chi siamo realmente.
"Salvare la vita" o vivere in pienezza diventa possibile solamente quando rimaniamo in connessione con quell'identità profonda, il che richiede, ovviamente, che smettiamo assolutamente di identificarci con l'io. Le parole di Gesú, dunque, potrebbero essere parafrasate in questo modo: "chi vuole salvare il suo ego, perde la vita; ma chi si libera dall'identificazione con l'ego, vive in pienezza".
È facile notare che si tratta di una massima che appare, in un modo o nell'altro, in tutte le persone sapienti, di qualsiasi tradizione. Tutte loro mostrano che è questo il cammino del risveglio, dell'uscita dall'ignoranza verso la luce, dalla sofferenza verso la liberazione.
Mi vengono in mente le parole di Aldous Huxley: "Se sapessi chi sono in realtà, smetterei di comportarmi come quello che credo di essere; e se smettessi di comportarmi come quello che credo di essere, saprei chi sono." Queste parole hanno in me la risonanza di una glossa proprio adeguata al testo del vangelo che stiamo commentando.
Il testo di Marco parla di "perdere la vita (l'io) per causa del vangelo". Come fare a capirlo? Non si tratta, evidentemente, di alcun tipo di fanatismo che facesse del vangelo una bandiera di lotta oppure un idolo cui "sacrificare" la propria vita.
Coerentemente con quanto è stato esposto, credo che quella frase possa significare una sola cosa: quando scopriamo la "buona notizia" (=vangelo) di chi siamo, allora siamo capaci di disidentificarci dall'ego e smettiamo di vivere per esso.
Se ho capito bene, in questa stessa direzione mira quella preziosa parabola di Gesú che parla dell'uomo che trova un tesoro in un campo: quando lo trova, "va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo" (Mt 13,44).
Il tesoro è il vangelo, la buona notizia di chi siamo in profondità. In realtà, non c'è altro tesoro che gli si possa paragonare. È l'unica cosa che veramente importa: sapere chi siamo e vivere in connessione con questa Identità.
Enrique Martínez Lozano
Traducción de Teresa Albasini